G.M. Pagnini traduttore neoclassico (1953)

G.M. Pagnini traduttore neoclassico, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 57°, serie VII, n. 1-2, Genova, gennaio-giugno 1953, poi in W. Binni, Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.

G.M. PAGNINI TRADUTTORE NEOCLASSICO

Il Foscolo, tutt’altro che tenero con i traduttori settecenteschi dei classici, su cui pure aveva studiato per le sue versioni da Callimaco-Catullo e da Omero[1], fu generoso di elogi con il Conti, ammirato come teorico, critico e traduttore, e addirittura come poeta[2], e con G.M. Pagnini, che egli chiama «dottissimo, benemerito piú ch’altri mai della poesia greca»[3]. Il suo Callimaco (Parma, 1798), il suo Teocrito, Mosco e Bione (Parma, 1780) figurano fra i libri del Foscolo[4] insieme agli Amori del Savioli, al Catone di Addison-Salvini, al Milton del Papi, al Sofocle del Bellotti.

Il Pagnini (1737-1814), un frate carmelitano pistoiese[5] vissuto soprattutto a Parma (grande centro prima di classicismo rococò e illuministico, poi di neoclassicismo, per quanto inquinato dalla eredità frugoniana che si ritrova, malgrado la loro reazione, nei Mazza e nei Rezzonico[6]), fu insieme un erudito latinista e grecista (ma piú grecista e vicino con il suo amore e la sua devozione ai «limpidi di Grecia rivi») e un traduttore non privo di velleità di poesia originale, in verità ben poco realizzata, a giudicare dalle sue poesie ancora di stampo arcadico (ed Eritisco Pilenejo fu lo pseudonimo fedelmente portato dal Pagnini in testa alle sue opere) sparse nelle raccolte del tempo e in parte riunite nelle Poesie bucoliche italiane, latine e greche di Eritisco Pilenejo (Parma, 1780). In cui però è comunque evidente l’intenzione dotta di esercizi nelle tre lingue a rinforzare la propria moderna classicità, intorno al motivo «bucolico» che lo lega ancora esternamente all’Arcadia[7] (cui lo legano anche esperienze curiose come le sue rime bisdrucciole[8]) e costituisce la direzione piú viva della sua tenue ispirazione, come si può vedere anche nella modesta e dignitosa favola scenica Filemone e Bauci, in cui un blando idillio riporta a sviluppi di Arcadia rinforzati dal piú solido naturalismo pariniano (Chi di natura / alle leggi ubbidisce, altro non cura[9]).

Prossimo a quella inclinazione di idillio pastorale rinnovato che trova la sua precisazione e la sua forza di efficacia letteraria in Gessner, il Pagnini rimane però al di qua di ogni altro contatto preromantico e la sua sensibilità delicata ed attenta fa la sua massima prova in direzione di un tono idillico blandamente elegiaco nella bella traduzione delle Pastorals del Pope: Le quattro stagioni (Pistoia, 1791). In queste, stimolato dal notevolissimo testo popiano che poté piacere sino a Byron per il suo acuto e poetico realismo, in una pura atmosfera «virgiliana», il Pagnini sfiora risultati di una tenue limpidezza soffusa di patetica, ma contenuta dolcezza elegiaca, che può portare in parte questo testo a collaborare inconsapevolmente alla stessa linea preromantica nel suo punto di contatto maggiore con il neoclassicismo, verso la sintesi aggraziata di un Bertola e di un Pindemonte:

in fosche nubi

s’involve il sol, le desolate piante

mostrano il gel che i rami imperla, e sparso

di vizze fronde è il suo funereo letto...[10]

d’una fuggente luce

già rosseggiava il ciel, mentre la guazza

stendea sul calle un bianco velo, e fea

vicino a terra il sol l’ombre piú lunghe.[11]

Prova, se ce ne fosse bisogno, di quanto le due linee di gusto abbiano a volta contatti e collaborino, pur con poli estremi spesso contrapposti e polemici, nella concreta attività dei letterati del secondo Settecento.

Ma anche nelle Quattro stagioni (quanto piú ricca l’«Arcadia» inglese del Pope di vero sentimento della natura, di complessità sentimentale, tanto da fornire piú facilmente l’attacco al preromanticismo di un Gray, di quanto non avvenga nella nostra letteratura in cui lo stacco preromantico malgrado mediazioni e sfumature è piú brusco) le indicazioni del Pagnini – traduttore di alte capacità, inclinato essenzialmente ad una grazia nobile ed elegante, come dimostrano anche le sue preferenze per testi non drammatici – valgono soprattutto in chiara direzione neoclassica con le sue accentuazioni di linguaggio, le sottolineature di aggettivi e di movimenti eleganti e nitidi senza abbandoni, inverando la semplice correctness popiana in una linea di purezza piú suggestiva che egli usufruisce come intima tensione per un mondo di bellezza e di perfezione che nel Foscolo delle Grazie troverà la sua coscienza piú profonda e la sua giustificazione in un originale, centrale motivo poetico:

Ma ve’ là dove Dafne oltre le nubi,

e lo stellante cielo in alto poggia

maravigliando, di bellezze eterne

vide il soggiorno alto lucente: i campi

son sempre freschi, e sempre verdi i prati.[12]

Motivo di idillio alto e suggestivo, di una beatitudine di natura resa perfetta, che il Pagnini rileva al di là delle stesse offerte dei testi facendone quasi un suo motivo personale, una specie di ispirazione ricavata dai classici e adibita ad illuminare i classici stessi in questa aura di sogno di mondi perfetti e beati, di proporzioni e di sentimenti candidi ed eleganti. E l’eleganza ha qui qualcosa di piú candido che non nel prezioso cammeo o nella miniatura del Savioli e dei savioliani.

Cosí anche nelle versioni-rifacimenti da Orazio, contenuti nelle Poesie bucoliche italiane, latine e greche già citate, si avverte un’adesione e uno sforzo riuscito di linguaggio, un’emozione piú viva quando il testo permette e suggerisce visioni di pace serena, di idillio mitico, di aura beata e nitida:

e non piú i prati

albeggiano di candide pruine.

Già sotto il guardo della luna i cori

Citerea guida, e l’eleganti Grazie...[13]

All’isole beate,

a’ ricchi campi andiamo, ove non tocco

il terren dall’aratro ogni anno appresta

di Cerere i bei don, sempre frondeggia

la non potata vigna, il non fallace

mignola ulivo, il fico orna le braccia

di bei brogiotti, il mel largo distilla

dall’elce cava, e giú da’ monti scende

con crepitante piè la placid’onda...[14]

Ed anche nelle poesie originali, piú arcadiche e petrarcheggianti, non appena egli può inserire una pittura di natura mossa da figure mitiche e da possibilità di rilievo nitido, e nobilitata da paragoni e da parole classiche, il suo periodo si fa piú lungo, sicuro, ricco di ricerche sottili di immagini e suoni che fa pensare a certa tecnica foscoliana e ad una base pariniana (come meglio si può vedere nella traduzione di Teocrito) fra gusto di rilievi sensibile ed eletto e piú pacata distensione:

a te plaudendo

le Najadi col capo alto su l’onde...[15]

qual lieta suole in lieta piaggia aprica

nudrita pianta, cui benigno arrida

il cielo e l’onda, per le ricche braccia

volgendo gli anni, ampia di fronda e frutta

schiudea tesoro, onde Pomona tesse

ebbra di gioia al vago crin ghirlande...[16]

Le figure mitiche sono sentite come soluzione eletta di sentimenti pacati e rasserenati, in un mondo di relazioni nobili di spiriti aristocratici

(a spaziarmi in Pindo

fuggo talvolta e un qualche inno eletto

indi ne porto, ch’io discior poi godo

tra candido drappel di colti amici),[17]

e nei momenti piú intensi, meno convenzionalmente petrarcheggianti (ad esempio l’epistola al Marchese Camillo Bevilacqua[18]), legano questi tentativi mediocri alla tenue vena personale che meglio si scalda e si scioglie nelle traduzioni cosí diversamente continue, fluenti, e costantemente animate da questa sottile ansia di far rivivere in una lingua effettivamente nuova, in un eletto cerchio di spiriti «colti»[19], un mondo poetico perfetto ed insostituibile.

Non hanno tanto interesse le versioni di Anacreonte, Saffo ed Erinna (Lucca, 1794), che restano piú legate allo schema di versioni del primo Settecento nei metri brevi e nella suggestione delle «anacreontiche» originali, modificate in direzione savioliana, ma sempre con un’ineliminabile cadenza metastasiana[20], quanto quelle catulliane, virgiliane e soprattutto quelle in verso sciolto dei bucolici Teocrito, Mosco, Bione con l’appendice delle Bucoliche virgiliane[21].

Ché nel verso sciolto si svolge con piú sicurezza – fuori di quella schematicità in cui il Metastasio aveva contenuto la sua trama di sentimenti e di canto e il Savioli aveva inquadrato le sue figurine da cammeo – la suggestione letteraria della poesia neoclassica e le notevoli capacità stilistiche del Pagnini trovano il loro pieno impiego di regolarità varia, di effetti musicali raffinati, sorretti da un particolare sentimento di compiacenza nel trattare una materia poetica cosí eletta, dalla sottile ansia di respirare in quell’aura nobile, di distendere una patina di propria poesia su di una poesia accettata come perfetta, di contribuire ad una lingua poetica antica e nuova entro limiti di fedeltà e di entusiasmo per le suggestioni essenziali del testo: condizioni tipiche della traduzione-creazione neoclassica.

E cosí, di fronte ad altri traduttori di Catullo di gusti classicheggianti precedenti e ancorati al canzonettismo[22], sia pure nelle sue accentuazioni di maggior lucidità e precisione postsavioliana[23], o alla versione della Chioma di Berenice, limpida e facile, del Mattei, in terzine accentuate elegiacamente sulla via della celebre elegia popiana-contiana, o a quella in ottave ariostesche delle Nozze di Peleo e Teti di S. Broglio di Ajano[24], la versione pagniniana di quest’ultimo poemetto catulliano[25] si presenta esemplare nella sua fedeltà, non priva di tenui svolgimenti entro il testo: accentuazioni, rilievi diversi per aumentare edle Einfalt und stille Grösse[26], la figuratività e la suggestiva e contenuta cadenza musicale in cui il canto di Arcadia si è sciolto in funzione di una linea ampia, fluente, appoggiata a momenti figurativi che funzionano insieme da simbolo stilistico e da centro di propulsione e di tensione. Vero esemplare della scuola neoclassica in questa sua zona di traduzioni cosí vicine alla produzione originale di cui costituiscono spesso il surrogato piú sicuro e l’avvio, come nel Monti, e, con le debite proporzioni, nel Foscolo, per il quale la potente originalità e l’assimilato nutrimento romantico sorreggono una posizione del tutto speciale e superiore.

Non si esclude affatto che negli altri traduttori – in questo caso nel Broglio (anche lui del resto tutt’altro che esente da influenze neoclassiche, pur nel suo particolare vagheggiamento di un brio spontaneo ariostesco richiamato soprattutto dal suggestivo avvicinamento dell’episodio di Arianna-Olimpia) – possa esservi una capacità espressiva a volte superiore a quella del Pagnini, come in certi pittori eclettici settecenteschi vi è piú forza (come nel caso di Pompeo Batoni ad esempio, mal collocabile fra i veri pittori neoclassici) che non nel «Raffaello del nostro secolo», il Mengs. Ma certamente, nell’accordo tra fedeltà essenziale, senza cui cade la prima base della ripresa neoclassica, e svolgimenti coerenti (si pensi come ad esempio massimo in tal senso alle giustificazioni – non importa quanto esaurienti – del Foscolo per le sue «inserzioni» ed «innesti» nelle versioni omeriche), la traduzione del Pagnini rappresenta storicamente una sicura fase del gusto neoclassico, ed è atta a contribuire alla formazione di un linguaggio e di una poetica che si diffonderà alla fine del secolo trovando la sua realizzazione piú originale nel Monti e nel superamento romantico-neoclassico del Foscolo.

Arioso e brioso, colorito e con forti residui rococò, il Broglio svolge il testo catulliano pensando ad un Ariosto rivisto nelle illustrazioni delle edizioni settecentesche e nella accentuazione del melodramma e delle cantate fra Metastasio e Rolli[27]:

Non le tumide poppe alabastrine

piú fascia alcuna or le circonda e serra.

Già delira meschina. Ahi giunge a tanto

in petto umano disperato amore!

Meschina ahi! fin d’allor, che di Pireo

a Creta giunse l’infedel Teseo![28]

Mentre il Pagnini cerca un ritmo ed una linea che adeguino e rilevino piú minutamente e continuamente le suggestioni piú riposte del testo ricreandovi sopra, senza travestimento e «rimbiondimento», una propria accentuazione figurativo-musicale:

Che le Nereidi, fieri volti, usciro

del bianco golfo, il gran mostro ammiranti.

In quel dí, né mai piú, vide occhio umano

ninfe marine con le membra ignude

fuor de’ candidi gorghi infino al petto.[29]

Rilievi, trasposizioni, inversioni, esclamazioni fra patetiche e contenute, note intense di parole classiche con accentuazioni di sentimento moderno, ma levigato e nobilitato (le «cure» foscoliane!), un giro sempre raro e mai «andante»

(Ahi sventurata, cui levò di senno

con incessante gemito Ciprigna

seminandole in cor pungenti cure),

una misura di incidenza di parole elette e un riferimento di miti e di figure nel verso. Come nella sequenza delle Parche che filano (ripreso come si sa in Catullo dal Foscolo nel velo delle Grazie) la precisa suggestione di una parola essenziale, viva nel suo speciale rilievo nel verso che il Foscolo riprenderà nella strofa sull’amore coniugale:

A te verrà di sospirate gioie

portatore a’ mariti Espero e seco...[30]

Ma la prova maggiore del Pagnini (pur nel limite di una certa concessione a forme di leggiadria e a ricerche di lingua scherzosa suggerite dal testo e dalla tradizione arcadica qui piú risentita come nel caso di Anacreonte) è costituita dalla versione dei «bucolici» che fece testo anche per le note erudite da cui fu accompagnata nella bellissima edizione bodoniana[31].

Teocrito era stato già tradotto in epoca arcadica da Domenico Regolotti («professore di poetica e lingua greca nell’Università di Torino»), nel 1729, e nel 1772 era uscita a Livorno una scelta di epigrammi greci tradotti in versi latini e toscani da Averardo De’ Medici[32] con largo posto alle composizioni piú brevi di Teocrito.

Ma proprio nel confronto fra la versione del Regolotti, frutto del periodo arcadico, e quella del neoclassico Pagnini, si può misurare bene e una volta per tutte la differenza che può esservi fra una traduzione del primo Settecento e una del periodo neoclassico. E molti sono i casi di una doppia traduzione nelle due epoche fra le quali, se non si può certo stabilire una rigida divisione o un periodo intermedio di vuoto – per quanto indubbiamente nei decenni centrali del secolo vi sia meno intensa attività di traduzioni –, si può tuttavia indicare una forte diversità di intonazione e nella seconda una maggiore sicurezza dei propri scopi e della collaborazione ad una vera e propria opera necessaria: mentre nella prima vi è qualcosa di piú saltuario, indeciso e nel linguaggio poetico si avverte uno sforzo maggiore, un’incertezza fra mediazione, riproduzione e travestimento fra generica volontà classicistica e il peso di componenti arcadiche-rococò.

Nel Regolotti amplificazione abbondante e travestimento, attenzione alla vivacità del dialogo e alle possibilità melodrammatiche: la poetica arcadica ha una singolare tensione al dialogo, alla molteplicità di voci anche se su di una sostanziale monotonia di sentimenti base. Nel Pagnini, che qui dimostra la sua piú ampia capacità di adeguazione a vari motivi riuscendo anche in toni amabilmente scherzosi[33], una maggiore tensione ad una descrizione lirica, nella fedeltà ben diversa e sentita non solo per scrupolo filologico, ma proprio come vita del testo e base di piú arduo esercizio, di nuova poesia letteraria stimolata nel margine stretto del testo con un procedimento di piú intenso contatto e di creazione di una patina propria che potrebbe quasi idealmente da quello staccarsi, prolungarsi in variazioni autonome senza perderne il sapore piú denso[34].

Nel Regolotti le descrizioni (che pure di fronte alla poesia melodrammatica e canzonettistica, fiore dello sforzo poetico di Arcadia, sono essenziali sulla via del verso sciolto per la formazione del linguaggio classicistico del secolo e per il suo arricchimento di parole e cose) o sono stentate o troppo diluite e facili (e ricercano echi di abbondanza tassesca e peccano di pittoresco alla Marino). Il Pagnini invece in quelle[35] dispiega la sua sapienza stilistica, la sua animazione lirico-descrittiva. Specie quando la sequenza, meno fratta dalla battuta del dialogo, si può svolgere in un’onda complessa e pacata, suggestiva d’un mondo rappresentato e perfetto, mitico e nobile: in cui il rilievo delle cose evocate ha un suo fascino meno pungente che non nel classicismo rococò, una funzione di rappresentazione larga e accompagnata da uno speciale, sottile patetismo, da una compiacenza di aura lontana richiamata in un tempo presente.

La versione del Regolotti, nei suoi limiti arcadici, prepara il descrittivismo sensuoso del classicismo rococò; quella del Pagnini, che pure di quello risente e utilizza le offerte, prepara e accompagna la poetica neoclassica piú lineare, piú evocatrice e suggestiva, meno minuta e pittoresca. Si avverte un’eleganza sempre piú sicura e coerente (mentre nel Regolotti c’è spesso un brio piuttosto pesante e un’incerta ricchezza linguaiola che urta con finezze piú semplici e «corrette»), un fluire del verso continuo e avvincente sino a quella certa monotonia che ancor piú si rileva nelle versioni bondiane di Virgilio o nelle stesse versioni omeriche del Pindemonte e del Monti e nella purissima Feroniade di quest’ultimo[36]. Mentre esigenze di canto confortano amplificazioni e ripetizioni[37], un linguaggio sempre nitido ed eletto senza le rozzezze curiose del Regolotti («tottila dunque!»[38]), meno teso a quel «caratteristico» che, attinto con la massima forza nel periodo pariniano del Mattino, i neoclassici tendono ad alleggerire e spaziare per forme piú alte e lontane. Cosí nell’idillio XVIII al rilievo colorito e pittoresco e all’amplificazione del Regolotti corrisponde la «nobile semplicità» del Pagnini:

Quale nascendo la vermiglia aurora

ne mostra il viso risplendente e vago,

poiché l’oscura notte dileguossi,

in tempo che l’inverno meno austero

dà luogo a la novella alma stagione,

tale appunto risplende fra di noi

vergine biondeggiante al par de l’oro

altera di sembiante e di persona.[39]

– Come il bel volto

scopre l’Alba nascente allorché sgombra

la veneranda notte, e cede il regno

all’albeggiante primavera il verno,

tal fra noi l’aurea vergine splendea

complessa e grande.[40]

E anche quando si toccano toni scherzosi, mentre il Regolotti volge al comico, al diminutivo vezzoso (fra Arcadia canzonettistica e cruschevole[41]), il Pagnini, piú vicino a Parini e a Foscolo, sa modulare toni ironici e leggeri e cautamente sorridenti, come in certe rappresentazioni fra galanti e sentimentali che il Regolotti sciupa o taglia per bruto moralismo[42], e sa tratteggiare immagini di lieve disegno perfetto (la fanciulla dopo il primo amplesso):

Indi ella mosse a pascolar la greggia

vergognosa negli occhi, ma nel core

tutta festante...[43]

Queste differenze (presupposto naturalmente il legame che pure non manca e l’importanza della traduzione del Regolotti nella fase di classicismo arcadico e nella preparazione di piú intenso classicismo[44]) precisano bene la posizione nuova del Pagnini come rappresentante esemplare del gusto neoclassico e della collaborazione essenziale fra le traduzioni ispirate ai principî winckelmanniani e la poetica neoclassica in formazione.

Fedelissimo al gusto «greco» e ai precetti winckelmanniani («l’elegante semplicità»[45], «tutt’affatto di gusto greco»[46], – sono giudizi sempre pronti ad indicare il massimo della sua ammirazione), attento a paragoni con gli esemplari figurativi[47], nemico del concettismo e della pointe[48], il Pagnini realizza, in queste versioni di Teocrito, Mosco e Bione e nelle Bucoliche virgiliane, i suoi tenui risultati di grazia nitida non rappresa in misure minute, ma ariosa e spianata e viva specialmente quando essa può svolgersi nell’onda contenuta, e tanto piú suggestiva, di descrizioni di natura popolata di figure mitiche in atteggiamenti di molle riposo, di movimento in potenza.

Non era piú l’idillio arcadico con lo sviluppo sannazzariano e cinquecentesco guariniano e tassesco (di cui pure non mancano echi sfumati in questa linea cosí suggestiva e ricca di tradizione letteraria); e se preziosi rilievi di origine rococò vengono qui accordati con un fare piú largo e sognato, la versione del Pagnini non avrebbe subito forse la condanna di certi gessneriani tedeschi come il traduttore di Arethusa o Die bukolischen Dichter des Altertums[49], che nell’iniziale Versuch über das bukolische Gedicht, tutto in funzione del Gessner e della Nationalidylle[50], asseriva recisamente che «Gessner fühlte zuerst das Reizende der theokritischen Hirteneinfalt, welche durch die Italiener und Franzosen aus der Idylle verdrängt worden war»[51].

Una raffinata semplicità e (si guardi una volta per tutte agli autori piú onorati del neoclassicismo settecentesco: Catullo, elegiaci, bucolici, Callimaco) in realtà meno leziosa e meno sentimentale di quella del Gessner (punto di contatto fra preromanticismo e neoclassicismo[52]) corrisponde ad una capacità di lingua ricca, modulata in effetti musicali complessi e in collaborazione musica-figura: che fa ben sentire come la grande poesia delle Grazie abbia anche una base letteraria, ravvicinata, quasi una preparazione stimolante di spunti, di moduli, di accordi di parole e suoni (e non perciò fonti e plagi) qui piú vicina ancora che in certi passi noti del Conti, che pure portava stimoli convergenti di fare poetico e di intuizioni teorico-critiche ben piú importanti del dolce gusto e della nostalgia di mediare con occhi propri visioni suggestive di un passato incantevole che era sottinteso nell’abile traduzione pagniniana.

A te le Ninfe

recano gigli coi canestri pieni;

a te candida Najade mietendo

le cime de’ papaveri, e viole

pallide, sposa lor narcisi e fiori

d’odorifero aneto, e cassie ed altre

soavi erbe intrecciandovi colora

di lutea calta i teneri giacinti,

io di molle lanugine albeggianti

mele e castagne ti corrò.[53]

Ricerche di effetti fonici, incontri vocalici e preziose sequenze di labiali e liquide che il Foscolo realizzerà in altissima musica:

dove aereo

stuol di palombi si ripara al covo...[54]

né intanto

di plorar cesseran fioche palombe,

tua cura, e tortorelle in cima agli olmi...[55]

udir migdonio flauto modulante

uno stridulo suono...[56]

ploran gli affanni di Ciprigna i fiumi,

gemon sulle montagne Adone i fonti...[57]

selva opaca

ove il pin de’ gran venti al soffio canta...[58]

o rosignuoi ploranti in dense frasche...[59]

Insistenza su parole elette e suggestive (plorare, aereo, romito[60]) in giri che partendo dal gusto raffinato di inversioni, sospensioni, interruzioni del verso pariniano del Giorno tendono ad un rilievo meno minuto, ad una complessità meno folta e piú pacata

(fontana

cui feano i pioppi e gli olmi alti chiomati

coi verdi rami intorno un bosco ombroso.[61]

Sovr’ogni alta amo Fillide, che pianse

al mio partire, e lungamente addio,

o mio vezzoso Iolla, addio, mi disse),[62]

con esiti piú distesi

(qualora il vento l’onde glauche sferza

placidamente...[63]),

in cui immagine e suono collaborano ad effetti di pace idillica

(allorché il sonno

piú soave del mel sulle palpèbre

riede, e le membra rilassando, in molle

laccio ritiene avviluppati i lumi...),[64]

di serenità compiaciuta della propria condizione e soffusa di un lieve sospiro di nostalgia per un passato non tutto interamente posseduto ed espresso. Offerte al Monti della Feroniade, al Foscolo delle Grazie[65] che risentí a volte Catullo attraverso Pagnini come nel brano delle Parche che filano[66].

Anche nella versione delle poesie di Callimaco[67] il Pagnini (e la scelta dei suoi autori non è caratteristica per il suo futuro ammiratore, il Foscolo?[68]) adegua il suo verso sciolto sempre piú elaborato e complesso alle forme epico-liriche degli inni (che tanta imitazione frutteranno al neoclassicismo trionfante) al di là dell’intonazione piú idillica e piú scherzosa delle versioni di Teocrito. E se in quella la sua capacità di traduzione ispirata appare piú intensa e felice, nelle lunghe sequenze degli inni (specialmente in quello dei Bagni di Pallade), nella direzione narrativo-lirica, quante figure mitiche colte in un movimento che si placa in riposo e si trasforma in un movimento sospiroso dell’animo

(E fuggendo di là la Melia Ninfa

di quella terra, si restò dal ballo,

impallidí nel volto, e per la quercia

sua coetanea sospirò al vedere

agitarsi le chiome di Elicona...),[69]

o quante scene di idillio epico, o descrizioni-elogio, o descrizioni-inno (come quelle che il Foscolo esalterà in grande lirica: a Zacinto, a Firenze) che dal testo callimacheo passano nella versione del Pagnini, sí con la loro forza originale di motivi poetici nativi, ma in un linguaggio coerente e nuovo che nasce nel contatto con il testo e con uno svolgimento delle esperienze classicistiche rinnovate e precisate dal gusto neoclassico.

Quando Imeneo con dolci suoni e canti

delle donzelle i talami conturba,

le vergini di Delo offrono a quelle

vergini in dono la coetanea chioma,

e i garzon per primizia a’ quei garzoni

recan del biondo pel la prima messe.

Odorifera Asterie, a te d’intorno

l’isole un cerchio fan quasi un bel coro...[70]

Le versioni del Pagnini cosí caratteristiche per il gusto neoclassico settecentesco (di cui indicano anche l’interesse per testi idillici o idillico-elegiaci o epico-idillici prima del piú forte interesse per l’epos omerico[71]) trovano un terreno propizio in quegli ultimi decenni del secolo in cui discussioni e concreta attività poetica convergono nella precisazione (entro un largo alone di eclettismo e di compromessi) di una maniera neoclassica, di una civiltà letteraria sempre piú attenta a termini di perfezione e di sogno estetico, di poesia «vera e bella», ma soprattutto «bella», che si distacca ormai dalla poetica divulgativa e combattiva dell’illuminismo, come dalla linea preromantica con cui pure non manca di contatti, nelle singole personalità.


1 Le sue esigenze di fedeltà e insieme di capacità poetica riproduttrice degli effetti dell’originale (ideale precisatosi nelle versioni omeriche e come conclusione alta e originale alle lunghe discussioni settecentesche sul modo di tradurre) urtavano con traduzioni troppo spesso o infedeli o prosastiche e dall’alto del suo neoclassicismo romantico egli piú facilmente poteva vedere i limiti di un gusto di «rimbiondimento» arcadico o di pedanteria dei grammatici («anime di cimici») o di traduzione di traduzione.

2 Vedi Commento alla Chioma di Berenice, in Opere, I, p. 239.

3 Commento cit., Opere, I, p. 246.

4 V. Cian, Il Foscolo erudito, in «Giornale storico della letteratura italiana», XLIX, 1907, p. 62 ss.

5 Per notizie sulla vita del Pagnini (Luca Antonio, poi Giuseppe Maria) si veda il De Tipaldo, Biografie degli italiani illustri del sec. XVIII, vol. VII, pp. 176-182. Nella miscellanea per nozze Bolognini-Sormani (Verona 1900) A. Rafanelli annunciava uno studio sul Pagnini che non mi risulta poi mai pubblicato.

6 L’Accademia di Parma fu uno dei centri di prima diffusione del neoclassicismo figurativo facilmente inseritosi nella locale tradizione correggesca.

7 L’Arcadia ebbe in quell’epoca una specie di sopravvivenza assai effimera ed equivoca non solo per merito del frugonianismo eclettico e magniloquente (che va cosí calcolato come componente del gusto del «grave e del sublime» dei neoclassici), ma anche a causa del particolare amore del campestre e del bucolico che trovava un’espressione efficace nella scialba ed aggraziata poesia del Gessner fra sentimentalismo naturalistico preromantico e figuratività neoclassica. Elementi rousseauiani, volgarizzati e privati del loro fermento piú profondo, venivano a rafforzare quell’amore per l’ingenuo e lo spontaneo che recuperava, su nuova base di cultura preromantica e dentro linee di quadretto idillico e di figuratività classicistica (scenette pompeiane e concisione da Antologia), elementi pastorali arcadici già utilizzati nell’esaltazione illuministica della natura («madre benigna e pia») vivi nella poesia del Parini. Nell’intreccio sottile di motivi e temi con i loro peculiari accenti, nelle loro sfumature e nei loro contatti in linee di svolgimento verticale intersecate da linee orizzontali diversamente incisive, l’elemento idillico bucolico tornava ad acquistare nel secondo Settecento una sua vitalità nuovamente motivata, ma tale da permettere equivoche eredità arcadiche e riprese di forme arcadiche, come nel Bertola, nel Pompei, nello stesso Pindemonte che pure spostava indubbiamente il centro di questa tematica «campestre» verso interessi decisamente preromantici. E cosí nel Pagnini, nel suo concreto operare artistico la sfumatura arcadica e preromantica è funzionale ad una intonazione neoclassica che usufruisce delle altre secondarie direzioni per nuovi effetti, aperti alla considerazione di un Foscolo, proprio sulla via delle Odi e delle Grazie. Per i rapporti Pagnini-Grazie si v. ora M. Fubini (introd. a Lirici del Settecento, Milano-Napoli, 1959, pp. LXVIII-LXXI) che interamente approva il mio rilievo prefoscoliano.

8

A che stupir se questi vizi germinano,

in uman cor tenacemente annidanvisi,

onde par proprio che in lor solio assidanvisi,

né per terrena forza unqua si sterminano...

9 Raccolta di feste teatrali per le nozze di Don Ferdinando Infante e Maria Amalia, Parma 1769, p. 8. Notevoli per il linguaggio neoclassico, e per certe cadenze di musicalità blanda, di grazia idillica e lieve anche le anonime Le feste di Apollo:

(Lievissime carole

segnino appena la pieghevol’erba...).

La produzione di questo periodo di secondo Settecento è piena di spunti di immagini, di cadenze di versi, di inclinazioni di figura e musica che colpiscono il lettore in contesti piú deboli come vaghi indici di un gusto e di un linguaggio poetico che viene illuminato à rebours dal riferimento soprattutto alla poesia foscoliana.

10 Le quattro stagioni cit., p. 14.

11 Le quattro stagioni cit., p. 13.

12 Le quattro stagioni cit., p. 15. Anche le traduzioni classicistiche rinnovano e muovono il linguaggio tradizionale se pure, naturalmente, con minor ricchezza e con novità meno sconcertante di quelle preromantiche. E certo le traduzioni di Pope sono in tal senso essenziali sollecitando soprattutto a precisazioni di realtà, di cose, di impressioni di cose. Una per tante: «le vellose nubi» che «di luce porporina eran rigate» (10).

13 Poesie cit., p. 64.

14 Poesie cit., p. 72.

15 Poesie cit., p. 102.

16 Poesie cit., p. 99.

17 Poesie cit., p. 108.

18 Poesie cit., p. 103. Vi corrono mosse pariniane intorno allo sparire dell’«alma salute» e vi ricorre un verso «da crudo morbo oppresso e domo», che fa pensare ad una lettura da parte del Leopardi, che conosceva e lodava il Pagnini come «celebre traduttore» che «ha conservato il gusto greco, ha dato una versione poetica e non una perifrasi, ha schivato l’affettazione e ha scritto versi italiani e non barbari» (Poesie di Mosco, in Poesie e prose, Milano, 1940, I, p. 584). Ma il Leopardi (si v. in proposito il mio saggio su Leopardi e la poesia del secondo Settecento in «La Rassegna della letteratura italiana», 1962, p. 389 ss.) nella sua traduzione di Mosco usufruí del Pagnini, e fortemente, con una sentimentalizzazione gessneriana però che sposta assai il rapporto Pagnini-Leopardi rispetto a quello Pagnini-Foscolo.

19 Il neoclassicismo è per sua natura aristocratico e inutilmente il Foscolo nel Commento alla Chioma di Berenice parlerà di popolarità, ché, malgrado il residuo illuministico della comprensibilità insinuato nel criterio della «chiarezza» e della «verisimiglianza» e che addirittura scatterà contro lo stesso Foscolo dei Sepolcri da parte di classicisti mediocri, il neoclassicismo non poté certo battere su questo terreno l’insorgente romanticismo veramente «popolare» e capace di un’espressione come quella berchettiana o verdiana.

20 E tale fusione savioliana-metastasiana nelle versioni anacreontiche permane anche nella nota versione del De Rogati (F. Saverio De Rogati, Odi di Anacreonte e di Saffo, Colle, 1782), nella quale però in generale predomina quel «facilismo meridionale» di ascendenza metastasiana che i neoclassici sentirono, nella sua isolata coerenza, come uno dei nemici da combattere insieme al preromanticismo e al «filosofismo» illuministico.

21 Le Bucoliche ebbero in questo periodo particolare favore di traduzioni. Fra le altre: A. Tornieri (Venezia 1779); P. Manara (Padova, s.d.); C. Drago (Palermo 1775); L. Crico (Venezia 1772).

22 Nella convenzione accettata che i metri brevi si adattassero meglio a soggetti di lirica erotica, secondo la notata distinzione dell’Algarotti, del Bettinelli e la stessa alta pratica del Parini e del primo Foscolo.

23 La versione del Peruzzi e quella del Bassani con la sua saltellante eccitazione briosa

(Piangete veneri

piangete amori,

e voi piú teneri

leggiadri cori

in Catullo di varj autori in Parnaso dei poeti classici, Zatta, Venezia, 1798, XX, p. 213) piacquero al Baretti (v. Frusta letteraria, ed. Piccioni, Bari 1932, I, p. 261).

24 Tutte nel citato volume del Parnaso dei poeti classici.

25 In Scelta di poesie di Catullo, Firenze, 1809.

26 Tale tendenza è forte nei traduttori neoclassici, che sono portati dal loro ideale accademico a correggere non solo la natura, per renderla piú bella e ideale, ma gli stessi testi classici, a renderli insieme piú aggraziati, piú figurativi, piú inclinati in quella cadenza di disegno musicale e figurativo che, partita da suggestioni classiche rilevabili sin nelle piú rozze ed incerte traduzioni del primo Settecento, si precisa in un caratteristico modulo letterario effettivamente diverso da quello che essi pretendono di far rivivere.

27 L’Ariosto e l’ottava ariostesca furono spesso un esempio e uno schema essenziale per molti traduttori del Settecento: Omero fu reso «ariostesco» (secondo il Rubbi) nelle parafrasi in ottave del Bozzoli (Roma 1769-70; Mantova, 1778-79), e in ottave furono tradotti piú volte Virgilio, gli elegiaci, ecc.

28 Parnaso cit., p. 230. Le traduzioni neoclassiche non hanno la funzione di rinnovamento di temi, di novità, di contenuto come quelle preromantiche e piú funzionano come presentazione in lingua nuova di una tematica descrittiva, di miti, di figure e di un determinato modo di costruzione, di moduli stilistici, attuati ed esemplari poi nelle traduzioni, ben diversamente dall’efficacia piú generica e soggettiva di una lettura privata del testo. Non mancano nella versione del Broglio punti singolarmente efficaci e qualche volta piú vicini del testo e della traduzione del Pagnini a riprese foscoliane. Cosí a p. 231:

che per mirar tant’alme trascinate

a perir senza tomba e invendicate

che fa pensare ai versi dell’Aiace in cui si allude agli italiani condotti da Napoleone a morire in Russia. Il testo ha altro rilievo: «quam talia Cretam funera Cecropiae nec funera portarentur» e Pagnini traduce (p. 59): «anziché fosser cotai morte salme / Non morte ancor di là portate a Creta».

29 Scelta cit. p. 51. Broglio piú morbido e leggiadro:

E il capo trasser le Nereidi fuore;

le Ninfe ignude ne veniano avanti

nullo velando di bellezza il fiore;

e d’esse allora sol mirò terreno

sguardo il tenero petto e il molle seno (p. 227).

30 Scelta cit., p. 83. V. Foscolo, Grazie, III, v. 181 (edizione Chiarini).

31 Teocrito, Mosco e Bione volgarizzati da Eritisco Pilenejo, Parma 1783.

32 Notevole è la prefazione (lettera a G. Domenico Stratico) in cui si associa una lunga discussione sul modo di tradurre (fedele, ma contro il «pedantismo» e con strane preferenze fra i traduttori per Mattei, Bozzoli, Cunich e Bottoni) con una perorazione di grecismo ad oltranza. I giovani (a cui nel secondo Settecento ci si rivolge specie nell’ambiente neoclassico che sente molto, anche se spesso a parole, impegni educativi etico-letterari fino al Giordani e alla scoperta leopardiana: prima ci si rivolgeva piuttosto alle donne e ai dotti!) sono invitati a persuadersi della «necessità di bere a queste purissime sorgenti» (p. 6), per «spogliare l’animo nostro di una certa naturale rozzezza, rivestendolo di tutte le grazie» (p. 3), per rendere con le «attiche dolcezze» anche le scienze «piú venerate e piú care». E a che deve il Metastasio la sua eccellenza? Al fatto di «aver con indefesso studio mutato in sugo e in sangue quanto avevano di piú bello scritto i classici greci e latini, ai quali soli deve se alla gloria di eccellente scrittore pervenne» (p. 7). Perciò opera essenziale è tradurre. Tradurre è l’appello neoclassico piú frequente: tradurre perché, se molto è stato tradotto, molto rimane da tradurre e moltissimo rimane da tradurre in modo nuovo e piú sicuro, piú neoclassico. «Eppure sebbene molti valentissimi si siano impiegati a scoprire quanto vi ha di prezioso nella Greca antichità, e donarlo alla favella nativa, non tutto ancora è scoperto, né alla sua perfezione è ridotto...» (p. 4). La traduzione poi mantiene assai poco le belle intenzioni ed anzi, come spesso avviene, le dichiarazioni servono a giustificare molte concessioni a un gusto di capriccio ancora molto rococò. Ma i neoclassici nelle loro concessioni a soluzioni piú brillanti e capricciose avranno sempre pronte, al di là della bellezza ideale, l’etichetta che tutto salvava: «Chi non gusta le attiche dolcezze dirà senza dubbio che questo sentimento è una freddurina poetica...» (p. XXV).

33 Dove spesso falliscono alcuni interpreti neoclassici piú arcigni e accademici supplendo semmai con ripieghi arcadici stonati, anche se tollerati nell’eclettismo di fine secolo, prima del piú decisivo trionfo del neoclassicismo in stile unico e intransigente.

34 Ed è perciò che nell’epoca neoclassica si potrebbe, a volte, a prima vista scambiare una traduzione con una poesia originale.

35 Dipingere contro descrivere è il programma foscoliano di origine graviniana-contiana, ma nei neoclassici in genere l’accentuazione del «particolareggiamento» è minore, meno succosa.

36 Nel Regolotti invece, come in genere nei traduttori del primo Settecento, non escluso a volte già lo stesso Marchetti, l’impiego stesso degli sdruccioli mentre vuol significare un tentativo di ritmo quantitativo classicheggiante porta con sé una fastidiosa cadenza sentenziosa e stentata.

37 Incominciate, o care Muse, il canto,

il villereccio canto incominciate...;

Regolotti:

Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.

38 Regolotti, op. cit., p. 28.

39 Regolotti, op. cit., p. 167.

40 Pagnini, op. cit., I, p. 237.

41 Il Regolotti è sulla via dei rilievi coloriti e plastici, il Pagnini si trova ormai al di là di tale esercizio di perspicuitas classico-sensistica e usufruendone lo alleggerisce e nobilita (con qualche eco polizianesca, come nelle versioni del cestello di Europa nell’idillio di Mosco).

42 E per trasformare l’amore omosessuale in lecita galanteria manda un fanciullo diventato fanciulla in una palestra fra «damigelle».

43 Il colloquio amoroso, I, p. 359.

44 E non mancano nella versione del Regolotti passi che confrontati con quelli del Pagnini mostrano la loro limitatezza, ma che, in sé e nella fase di gusto cui appartengono, rivelano il loro interesse e la loro efficacia. Come ad esempio questo passo che cito piú avanti nella versione del Pagnini di fronte alla quale serve anche per le notate differenze:

E un limpido vicino ruscelletto

sacro a le Ninfe che d’intorno albergano,

da l’antro lor sgorgando soavemente,

con dilettoso mormorio scorreane;

e le cicale su fronzuti rami

vie piú liete nel fervido meriggio

a garrir fortemente s’affannavano.

Da lunge anco l’acredula stridea

de’ roveti su l’irte e dense spine.

Cantavano le lodole e i cardelli,

e solinga gemea la tortorella... (p. 88).

45 Op. cit., I, p. 74, nota.

46 Op. cit., I, p. 69.

47 Nella versione citata delle Nozze di Peleo e Teti il Pagnini ricorda a proposito di Chirone: «In bellissima pittura presso gli Ercolanensi – tomo I, tav. 8 – vedesi il sapiente Centauro ammaestrare l’Eroe nel suono della cetra...» (I, p. 76, nota).

48 Tanto che, diversamente dagli accomodamenti notati in neoclassici piú eclettici, egli, lodando Teocrito epigrammista per la «schietta ed elegante naturalezza che è il pregio piú singolare de’ buoni antichi poeti», rimprovera alcuni epigrammisti della Antologia per aver tenuto dietro «alle sottili arguzie e ai ricercati concetti. Fatale scoglio, dov’è andata per lo piú ad urtare la poesia d’ogni nazione dopo ch’ella è salita al suo grado maggior d’eccellenza...» (I, nota, p. 155).

49 Berlin 1789.

50 Accentuazione «nazionale» ben significativa nell’ultimo Settecento tedesco.

51 Op. cit., I, p. 51. E il Gravina aveva rimproverato i pastori-cortigiani del Tasso e del Guarini.

52 V. il mio Preromanticismo italiano, Napoli, 2a ed. 1959, pp. 156-159.14

53 Op. cit., II, pp. 145-6.

54 Op. cit., II, p. 161.

55 Op. cit., II, p. 135.

56 Op. cit., II, p. 20.

57 Op. cit., II, p. 74.

58 Op. cit., II, p. 61.

59 Op. cit., II, p. 29.

60 or sotto querce

romite assiso ad un piú dolce canto (II, p. 30).

61 Op. cit., I, p. 93.

62 Op. cit., I, p. 163.

63 Op. cit., II, p. 60.

64 Op. cit., II, p. 8.

65 A parte la particolare ripresa del «dolce di Calliope labbro» (II, p. 36) nei Sepolcri.

66 A p. 80 nella Scelta di poesie di V. C. cit., Firenze 1807.

67 Pagnini, Callimaco, Parma 1798.

68 E al solito per il Foscolo non mancano spunti limitati, come a p. 36 il verso su Febo che «in odio ha chi pon Delio in obblio» per il motivo foscoliano «sdegnan le Grazie chi la patria obblia» o piú largo e generale come, nei Bagni di Pallade, la scena dell’accecamento di Tiresia (p. 62) con l’esclamazione che il Foscolo trasformerà in un significato cosí ampio e dolente: «Misero! non volendo a mirar ebbe / ciò che mirar non lice... / Disse e a lui cieca notte i lumi oppresse...». E base di ricerche raffinate nella Chioma di Berenice; come ai vv. 64-65. È noto poi che nell’Ode alla Pallavicini il Foscolo utilizzò per l’inizio dell’ode la versione pagniniana del Canto funebre di Adone di Bione (con qualche spunto anche dall’idillio teocriteo Sopra Adone morto).

69 Op. cit., p. 41.

70 Op. cit., p. 55.

71 Fra le traduzioni di questi decenni, prima delle versioni omeriche del Monti, Pindemonte e Foscolo, e di quelle virgiliane del Bondi, quelle del Pagnini son nettamente superiori e particolarmente indicative. Piú deboli e incerte quelle di R. Pastore (Lucrezio, 1776; Catullo, Tibullo e Properzio, 1790), quelle di Tibullo di A. Peruzzi (1798), quelle di Virgilio del Tornieri (1779), del Bozzoli (1782), del Cantuti Castelvetri e del Biancoli (1780-1800) ecc. Si veda un elenco di traduttori in G. Natali, Il Settecento, 3a ed., Milano, 1950, I, pp. 508-518.